(di Dino Fabbri)
…È uno di quei giorni che ti prende… cantava Ornella Vanoni agli inizi degli anni 70 riferendosi ad una sorta di amorosa malinconia…., qualche anno più tardi, in un giorno qualunque e in un contesto completamente diverso, ciò che prese me fu una moderata noia con lieve componente ansiogena in previsione di una 24 ore da trascorrere segregato in aeroporto in attesa di un eventuale ordine di decollo immediato; era un tardo pomeriggio d’inverno dell’81, non ricordo il giorno esatto ma il mese si, dicembre: fuori ormai completamente buio, aria secca e frizzante, cielo terso, sera stellata senza luna, insomma esattamente l’opposto del tempo che abitualmente infagotta la base aerea di Cameri durante il periodo invernale quando nebbia e umidità la fanno da protagoniste; in palazzina-allarme, da qualche tempo la mia seconda casa, la solita squadra di 8 persone, 2 piloti e 6 specialisti premurosi custodi di una coppia di F-104-S armati e riforniti di tutto punto, ma anche scrupolosamente “prevolati”, pronti cioè a reagire (decollare) in tempi brevissimi: 5 minuti al massimo.
Sino a quel momento la giornata era trascorsa abbastanza velocemente: la consueta routine d’ufficio che i piloti in servizio d’allarme potevano comunque sbrigare dalla sede del gruppo di volo, l’indimenticato 21 esimo “tigre”, rigorosamente esclusi dal programma addestrativo, ma con un orecchio, anzi due, sempre ben orientati e tesi a percepire se dall’ altoparlante della linea calda provenisse un brontolio che potesse assomigliare, anche vagamente, ad un ordine di decollo (scramble); nel qual caso lesti come la folgore sarebbero saltati sulla “sfruttatissima Fiat panda targata A.M.” in attesa con le portiere aperte e chiavi nel quadro, avrebbero con questa attraversato a bombazza la pista, bloccato le ruote ai piedi della scaletta dei velivoli, si sarebbero catapultati a bordo, messo in moto il jet con la collaborazione del personale di terra e una volta arrivati in pista liberati tutti gli oltre 8000 kg di spinta per volare a fionda contro la “minaccia”.
Come forse si sarà capito, quel dì uno dei piloti ero io, l’altro, con funzione di capo allarme, Gianni, mio compagno di corso in Accademia: entrambi giovani capitani ma già esperti “combat ready”, tutti e due entusiasti della carriera intrapresa, ma soprattutto fanatici del volo con lo “spillone”(il nomignolo affibbiato in Aeronautica al bisonico superstarfighter); ragione per la quale una giornata di lavoro senza alzare il sedere da terra ci sembrava sprecata, un po’ come mangiare un cibo poco gustoso: ti lascia il palato insoddisfatto; ad ogni buon conto l’attività di volo addestrativa era terminata, tutti gli aeroplani capottati, gli uffici chiusi e il personale aveva o stava abbandonando la nave; al sottoscritto ed al suo caposervizio, salutati comandante e colleghi, non rimaneva altro da fare che rientrare nella gabbia delle tigri, leggasi palazzina-allarme, per attendere pazientemente di smontare dal turno alle 9 del giorno dopo, ormai rassegnati a non assaggiare sino ad allora alcun “cibo gustoso”.
Nel felino recinto era già in attesa per il briefing serale l’ufficiale meteo il quale, con abbondanza di carte ed un forbito eloquio tecnico che spaziava dalle isobare ai gradienti, dallo zero termico al centro di alta pressione, ci dimostrò ciò che era evidente anche al mio gatto, e cioè che la serata era splendida e la nottata non sarebbe stata da meno, un pò fredda forse, ma limpida e totalmente priva di nuvole; così Cameri e così tutti gli alternati che garantivano assistenza: una vera rarità! Orbene, poiché mancava ancora un’oretta abbondante alla cena, mi cimentai nel passatempo preferito di un pilota in servizio d’allarme: convincere il controllore radar in turno di sorveglianza che sul suo schermo, se avesse ben guardato, vi avrebbe scorto una traccia sconosciuta, magari ostile, perciò meritevole di essere intercettata e identificata; trattavasi in realtà di un fiacco tentativo di indurre chi di dovere a ordinare il decollo della coppia in prontezza, esperimento che, mi rendevo perfettamente conto, aveva le stesse probabilità di successo di quelle di un ferro da stiro di rimanere a galla dentro una vasca piena d’acqua, ma che qualche volta, soprattutto in passato, aveva dato i suoi bei risultati.
E come volevasi dimostrare Mauro, abilissimo guidacaccia di Puma Radar e controllore di turno, non volle saperne di farsi corrompere, anzi mi ricambiò con la stessa moneta: “guarda Dino” mi disse “ non si muove proprio niente stasera e anzi per il freddo anche le civette vanno a piedi!” Beh, comunque ci avevo provato; a questo punto rimaneva ben poco da fare: meglio dare una sbirciata al quotidiano ed accendere la televisione in tempo per il telegiornale della sera, mentre il mio capo, spaparanzato sulla poltrona, si predisponeva per l’immancabile rapporto telefonico serale con il suo più autorevole (e severo) superiore: la moglie.
La cena arrivò puntuale alle 20, servita dalla operosa mensa aeroportuale, al termine della quale, dopo il “caffè dei notturni”, si svolse il consueto rituale postprandiale: si trattava di preparare per la notte incombente i due sofisticati e costosi marchingegni, ardite evoluzioni delle ali di cera del mitologico Icaro, rimaste disoccupate sino a quel momento; si, un pò come il papà e la mamma danno il bacino al piccolo prima di dormire mentre affettuosamente gli rimboccano la copertina; i velivoli furono così messi in moto e nuovamente verificati i principali impianti, proprio come se si dovesse decollare subito dopo, il tutto mediante una serie di controlli denominati in gergo delle “5 dita”: si provarono cioè in sequenza, identificati per l’appunto e richiamati ciascuno dalle dita delle mani, i comandi di volo, l’aerofreno, i trim, i damper, l’APC, i flaps, il rain remover, i flabelli del cono di scarico ed il motore, il tutto con rapida intesa e perfetta sinergia tra pilota a bordo e crew chief a terra; a conclusione, esultante per la riconfermata efficienza, fu l’urlo liberatorio del J-79 (il propulsore) spinto al massimo regime: un trionfo di decibel che squarciò la placida notte, pur se per pochi secondi, e che pareva volesse gridare al pilota: tutta la mia potenza come sempre è a tua disposizione, conta pure su di me.
OK, con il prevolo notturno dei 2 “spilloni” le prime 12 ore di servizio erano trascorse; al personale non rimaneva che organizzarsi per la notte, intimamente consapevole della scarsa probabilità, statisticamente comprovata, che alla coppia venisse richiesto un intervento a così tarda serata anche solo per testare la reattività del sistema (practice scramble); alle 21,30 quindi gli specialisti si radunarono attorno al tavolo della sala da pranzo per un pinnacolo mentre Gianni ed io preferimmo ritirarci nella nostra saletta e guardare un pò di televisione; il film non doveva essere poi così interessante dal momento che verso le 22,30 di comune accordo e con la palpebra parzialmente calata, spenta la televisione decidemmo che era giunto il momento di agevolare un rapido ma efficace incontro con Morfeo, il dio dei sogni.
Grugnita la buona notte, ci sdraiammo sulle rispettive brande con la seguente configurazione: il sottoscritto completamente vestito scarponi da volo compresi, Gianni in tuta ma senza calzari, questi ordinatamente appaiati ai piedi del letto in una posizione x che avrebbe dovuto costituire il più conveniente (probabile) punto di incontro con i piedi del legittimo proprietario nel caso di un repentino cambiamento dalla posizione sdraiata a quella eretta; a tal proposito le correnti di pensiero erano molteplici: chi sosteneva che era meglio riposare completamente vestiti per ridurre i tempi di reazione, chi invece per contro preferiva spogliarsi del tutto, pronto a dimostrare che gli 8-10 o anche 15 secondi necessari per indossare la combinazione da volo in caso di necessità non avrebbero significativamente inciso sull’obbligo di rispettare il limite dei 5 minuti per staccare le ruote da terra.
E poiché “electa una via non datur cursus ad alteram” il sottoscritto rimase vestito di tutto punto, scarponi compresi, ma ciò non gli impedì di passare in tempi rapidissimi dal disorientamento al coma vigile, dalla perdita di conoscenza alla benefica fase rem, ricca di sogni e fantasie di ogni genere; non saprei dire a che ora, e nemmeno se fosse propriamente un sogno, ma qualcosa tentò insistentemente quanto fastidiosamente di richiamarmi alla realtà poichè sembrava che qualcuno, più di uno, parlasse all’interno della stanza e molto maleducatamente si divertisse addirittura ad emettere sgradevoli pernacchie; nonostante ogni mia resistenza tesa al rifiuto di riacquistare anche il più piccolo barlume di coscienza, non potei fare a meno di percepire alcuni ritagli del fenomeno che più o meno suonava così: “prrrr….pronto Cameri….prrr… come mi ricevi….prrr… quattro quinti e tu?…prrrr…. forte e chiaro… prrr…allora scramble, scramble, scramble, per due hotel eco…..prrr… salita gate…alfa 370….a sinistra 030 ….prrr…con puma oscar 66 …..prrr… lo squawk 3/15… ricevuto Cameri?…OK ricevuto Puma….”
Alla parola “scramble” l’occhio si sbarrò, ma prima del panico il suono lancinante di una sirena mi trafisse il cervello ancora latitante scomponendolo in mille pezzi ciascuno dei quali, in compenso, totalmente inaffidabile; comunque uno e un solo file era contenuto nella ram del mio cranio in quel frenetico momento: una sirena urla…, allora devi correre! Escludendo un percorso al coperto dentro la stanza, l’unica direzione possibile doveva essere verso la porta, oltre la soglia, attraversando la quale, un attimo prima di uscire, percepii vagamente le imprecazioni del Gianni alle prese con la ricerca dei propri scarponi o più probabilmente con il tentativo di calzarli correttamente.
Ero d’un tratto balzato in piedi con la pressione arteriosa a 20 che stentava a salire, in corsa spasmodica verso una luce costituita dai fari dell’ hangaretto che riparava i due velivoli d’ allarme, mentre i pixel del mio cervello tardavano a comporsi in maniera soddisfacente continuando a fornire una visione degli accadimenti del tutto confusa, nonostante il freddo intenso sferzasse il viso e le mani scoperte; malgrado ciò raggiunsi ansimante la scaletta del velivolo avendo messo a fuoco in quel brevissimo lasso di tempo un preoccupante convincimento che purtroppo mi pareva abbastanza attendibile: dovevo mettere in moto l’avione e partire in gran carriera, ma come, dove, perchè? Si vedrà! Per prima cosa è indispensabile, pensai, salire a bordo; una volta adagiate le chiappe sul Martin Baker (il seggiolino eiettabile del velivolo) ecco il miracolo, le mani andavano da sole e gli occhi controllavano ciò che ancora la testa tribolava a concepire; in rapida successione la piattaforma inerziale fu posta su “align”, il contasecondi avviato, il pacco di sopravvivenza, alloggiato sotto il sedile, venne collegato al giubbetto di salvataggio, le giarrettiere agganciate alle gambe mentre le due robuste mani dello specialista, arrampicatosi non visto sulla scaletta immediatamente dietro di me, stringevano le cinghie di sicurezza che mi assicuravano saldamente al seggiolino e quindi al paracadute.
Un veloce sguardo all’esterno dell’abitacolo mi confermò che tutti i componenti della squadretta d’allarme erano febbrilmente presi dalle loro mansioni e anche Gianni si stava agitando nel cockpit del velivolo a fianco intento come me a legarsi, scrupolosamente assistito dal suo crew chief: chissà se aveva gli scarponi ai piedi mi sorpresi a pensare? Scacciai subito l’interrogativo perchè il rombo dell’atlas, il generatore di aria compressa indispensabile per avviare il J-79, mi fece capire che tutto era pronto per dare inizio alle danze: mentre azionavo entrambi gli starter della messa in moto riflettei che questa volta il mio capo-collega, con o senza scarponi, avrebbe dovuto accontentarsi di mangiare la polvere del mio yet, pensiero che mi fece storcere la bocca, già costretta nella maschera ad ossigeno, in un sorriso compiacente: quella sana rivalità costantemente presente nella casta dei piloti da caccia, sempre pronta a ricercare nel gruppo il più abile, il più veloce, il più aggressivo, questa notte avrebbe giocato a mio favore e contro il povero Gianni, così almeno pensavo.
Qualche frazione di secondo ancora per accendere i principali apparati di bordo mentre il motore aveva stabilmente raggiunto il regime minimo del 67% dei giri e già l’ottimo Ennio, il capo crew chief addetto al mio velivolo, tolte le spine di sicurezza del sedile eiettabile, mi segnalava correndo veloce davanti allo spillone che potevo iniziare a rullare; con i controlli ormai tutti completati, rimaneva solo da posizionare l’interruttore della piattaforma inerziale su “nav” per potermi muovere, ma appena lo feci il pannello avarie mi segnalò il malfunzionamento dell’impianto con conseguente “no go” da parte dell’orizzonte artificiale: ecco, al lento diradarsi della nebbia del mio cervello ancora sonnacchioso si aggiungeva una ulteriore, sgradita, scarica di adrenalina: l’avaria indicata non avrebbe consentito il volo: cha fare, ignorarla o applicare la prevista procedura che prevedeva il riallineamento della piattaforma con un ritardo di un minuto abbondante sui tempi di decollo? No, era notte, non si poteva rischiare di partire senza indicazioni attendibili di assetto del velivolo e di prua: la decisione fu presa in un istante, l’interruttore riposizionato su “align” e il contasecondi nuovamente in funzione per cronometrare il minuto necessario al nuovo allineamento.
Solo in quel frangente, guardando necessariamente l’orologio di bordo, mi resi conto che era quasi l’una del mattino, mentre allo sguardo interrogativo del “troppo in fretta considerato mangiatore di polvere” dovetti mio malgrado rispondere con uno spazientito cenno della mano che stava a significare “ vai pure avanti, vai pure a quel…..”; il boato del suo propulsore non si fece attendere oltre, spinto quasi al massimo per trascinare il velivolo fuori dall’ hangaretto e procedere il più velocemente possibile verso la pista di decollo; mentre ancora un pò frastornato guardavo con insistenza la lancetta dei secondi che sembrava inspiegabilmente rallentare sempre più, il velivolo del capo si fermò all’ingresso della pista per gli ultimi controlli da parte dell’armiere: mi scappò allora una mezza imprecazione studiata appositamente per incitare la lancetta del cronometro che finalmente, forse spaventata, si decise ad attraversare il numero 12 del quadrante decretando questa volta la piena operatività dell’apparato e consentendo a mia volta di abbandonare in gran carriera l’area di parcheggio all’inseguimento di quel paragnosta del Gianni che sospinto dalla regolare ma pur sempre impressionante fiammata del suo post-bruciatore (ossia di quell’impianto di sovralimentazione che azionato dal pilota mediante la stessa manetta del gas consente di raddoppiare quasi la spinta del reattore, pur con considerevole aumento del consumo di carburante), aveva ormai staccato le ruote da terra.
Nel brevissimo percorso che mi separava dalla testata pista copiai in cuffia ripetendole le autorizzazioni della torre di controllo (quelle del “sogno” per intenderci, che in gergo sono definite “clearance”), rifeci un giro di controlli in cabina, verificai visivamente che l’armiere avesse tolto tutte le spine di sicurezza dei missili alloggiati sotto le ali e finalmente mi ritrovai, dopo circa 4 minuti dal tragico risveglio ed ancora bastantemente frastornato, lanciato come una schioppettata tra due file di luci bianchissime parte delle quali scorrevano sempre più rapidamente all’indietro mentre tutte le altre si congiungevano lontane proprio davanti ai miei occhi: l’ebbrezza dell’accelerazione mi procurò un rilassante languore e quasi mi convinse di essere ancora immerso nel sogno di prima piuttosto che costretto nell’angusto spazio dell’abitacolo di un F-104-S e scaraventato dalla mano di un gigante fino al limite superiore del cielo.
Riuscii comunque a recuperare la delicatezza del momento talché la sua percezione mi scosse all’istante dal torpore costringendomi nuovamente alla massima concentrazione: stavo procedendo ad oltre 100 nodi in rapida accelerazione, il motore a pieni giri ed in massima post-combustione spingeva come una catapulta; in un attimo lessi sull’anemometro 120 nodi, poi 130, 140 …., a 175, (quasi 350 km orari) applicai una leggera pressione all’indietro sulla barra di comando e lo “spillone” ubbidiente alzò il naso verso le stelle, mentre le ruote si scioglievano dolcemente dall’abbraccio con l’asfalto della pista. Rientrato il carrello e mantenuta la massima potenza il velivolo continuava ad accelerare con una progressione che mi sorprendeva ogni volta; a 350 nodi vennero retratti i flaps, mentre a 430 fu necessario imprimere una decisa richiamata alla cloche per mantenere stabilizzata una velocità di salita pari a 450 nodi, quasi 900 km orari, prevista per questo tipo di “uscita operativa”, utilizzata quasi esclusivamente per i decolli su allarme.
Appeso ad un missile che si arrampicava nella notte con una rampa di 30 gradi e ad una velocità prossima a quella del suono, fissati i parametri di assetto prua e velocità, spostai l’attenzione sulle successive azioni da svolgere: cambiai frequenza radio sintonizzandomi con il radar della difesa che mi identificò positivamente, accesi quello di bordo e rifeci l’ennesimo giro di controlli degli strumenti motore che fortunatamente confermò come tutto fosse in ordine; di nuovo sui parametri di volo e, incredibile, avevo staccato le ruote da pochi secondi che già attraversavo 15000 piedi su per 37000 (12000 metri circa), la quota autorizzata dal controllo della missione: le lancette dell’altimetro si rincorrevano come impazzite mentre il variometro rimaneva stabilmente inchiodato a fondo scala, non essendo quest’ ultima tarata per delle arrampicate così estreme.
Stabilito il contatto radio anche con il mio leader, il mancato mangiatore di polvere, lo agguantai prima sul radar di bordo e in un secondo tempo anche visivamente grazie al bagliore della fiamma emessa dal suo cono di scarico: era là, sopra di me e davanti a me a circa 4 miglia, ormai prossimo a livellare alla quota autorizzata. Negli stessi frangenti, in termini temporali parliamo di poco più di un minuto dal decollo, puma radar, l’ente di terra che aveva il controllo tattico della missione, ci aveva saturato di informazioni circa una traccia non identificata che viaggiava ad una settantina di miglia dalla nostra posizione con prua nord ovest e ad una quota poco più bassa della nostra: il nostro target! Allora non era uno scherzo dell’ amico Mauro!? Quindi c’era qualche civetta che al contrario delle sue colleghe non amava andare a piedi con questo freddo e per giunta non voleva essere disturbata!? Certo se si fosse decisa ad un orario più consono…..; mentre così rimuginavo, l’occhio colse la quota che stavo attraversando, 35000: con una controllata violenza rovesciai l’aereo per fermare la salita 2000 piedi sopra: una tecnica che consentiva di recuperare il volo orizzontale senza provare quella fastidiosa sensazione di “stomaco in bocca” che una tradizionale appruata ti regalava con generosità.
Bloccata così la salita al livello autorizzato di 37 “angeli” (37000 piedi), disinserii il post-bruciatore e mi soffermai, in virata a sinistra per la prua ordinata, ad ammirare lo spettacolo: ero completamente avvolto dalle stelle, luminosissime e sparpagliate anche sulla linea del mio orizzonte, mentre la terra, 12 chilometri più sotto, appariva come una enorme concentrazione irregolare di luci spalmate su una tavolozza completamente nera; da quella quota e con quel tempo la vista poteva abbracciare tutto il nord-ovest dello stivale e distinguere con estrema chiarezza non solo Milano e Torino, ma anche i più estesi centri abitati del Piemonte, della Lombardia, giù fino alla Liguria. Un panorama mozzafiato che pochi quella notte potevano ammirare… ed io tra loro: nonostante tutto ero sbalordito e finalmente anche completamente sveglio.
Alcune persistenti vibrazioni mi riportarono in fretta alla realtà del momento ed al motivo per cui mi trovavo su quella giostra; la velocità del velivolo, pur di assoluto rispetto perché di poco inferiore a quella del suono, non era tuttavia sufficiente a garantire il volo livellato, ostacolato dal peso del carburante ancora presente nei serbatoi e dalla presenza dell’ingombrante armamento appeso sotto le ali (le vibrazioni erano il suo modo di comunicarmelo), complice la scarsa densità dell’aria a quella quota e la ridottissima superficie alare dello “spillone”, sua più evidente peculiarità. Una velocità supersonica sarebbe stata più appropriata, ma evidentemente a Mauro, il nostro guidacaccia, non garbava troppo la possibilità di dover rispondere, dopo, agli inevitabili improperi dell’intero interland milanese per un bang sonico in piena notte e pertanto non ci autorizzò ad abbattere il muro, costringendoci in tal modo ad utilizzare a singhiozzo e con certosina precisione il postbruciatore al fine contenere la velocità tra punto 95 e punto 98 di mak, un regime che ci consentiva appena di “galleggiare”.
Ad ogni modo, con la goffaggine di una papera fuori dall’acqua, procedevo comunque contro la traccia sconosciuta, seguendo in buon ordine il Gianni, sicuramente alle prese con le stesse difficoltà di pilotaggio, ma senza alcuna possibilità di avvicinarlo visto le limitazioni imposte alla velocità; le informazioni del radar di terra ci stavano posizionando su una traiettoria perpendicolare a quella del velivolo oggetto di indagine il quale viaggiava grosso modo per prua 310. Ciò che ricordo perfettamente ancora oggi sono gli ordini che ad un certo momento ci furono impartiti dal controllo della difesa aerea:” …il target si trova alla vostra destra, su un rilevamento di 050, ad una distanza di 35 miglia; viaggia a punto 78 di Mak ad una quota stimata di 35000 piedi: procedere all’identificazione e riportare il numero di matricola del velivolo”. Ora, mi era capitato spesso di identificare velivoli grandi e piccoli nel corso di analoghe missioni, persino di copiarne la matricola, un gruppo di 5 lettere dipinte sulla fusoliera, ma di giorno e non senza difficoltà vista la fisiologica differenza di velocità tra lo Starfighter e praticamente quasi tutti i vettori inquisiti: di notte, a quella quota e con un”nemico così lento” mi sembrava che la cosa sarebbe stata alquanto problematica, se non impossibile.
Mentre riflettevo sul da farsi, lo “spillone” continuava comunque a galoppare verso lo sconosciuto con una significativa velocità di chiusura al punto che ben presto avremmo ricevuto l’ordine di virare a sinistra per completare l’avvicinamento dal quadrante posteriore, il migliore per effettuare non visti un progressivo ricongiungimento su di esso; era necessario tuttavia, pensai, anticipare da parte mia il più possibile questa accostata allo scopo di riguadagnare lo spazio che mi separava dal leader e quindi avvicinare il bersaglio se non simultaneamente, almeno con un gap temporale più ridotto, pertanto, quando il controllo corresse il rilevamento sul target riducendolo ad una decina di gradi sulla destra, cominciai ad impostare una lenta virata a sinistra, mantenendo il radar sempre agganciato sul leader, per avere così in ogni istante contezza della sua posizione, ma iniziando contemporaneamente a scrutare anche il buio orizzonte al fine di cogliere visivamente e con ogni possibile anticipo tracce della presenza dell’aeromobile indagato.
La distanza era ormai ridotta a poche miglia quando il radar ordinò quella virata che avevo anticipato con studiato calcolo ed al termine della quale i due Starfighters si ritrovarono su traiettorie parallele, con la stessa prua del target e ad una distanza a lui molto prossima: quello del leader perfettamente in coda mentre il mio spostato di qualche grado sulla sua sinistra ma decisamente più “sotto” grazie al “taglio di strada” che avevo autonomamente operato; così posizionati, Gianni dichiarò quasi immediatamente il “lock on” ovvero l’antenna del proprio radar di bordo agganciata sul target, mentre il sottoscritto dopo qualche istante riuscì ad ottenere il necessario contatto visivo: le luci di navigazione dello sconosciuto erano finalmente visibili li, davanti a noi, leggermente spostate sulla destra e qualche centinaia di metri più in basso: era fatta, la prima parte della missione aveva avuto esito positivo, non rimaneva ora che avvicinarsi il più possibile per riportare al controllo ogni dettaglio che aiutasse ad identificare l’intruso.
Il ricongiungimento avvenne a breve, ma non senza difficoltà; dopo quindici minuti di volo infatti, il nostro spillone, esaurito il carburante dei serbatoi esterni pari a circa 1000 litri e consumato in parte quello degli interni, era più leggero, quindi anche un pò più manovrabile e ciò consentiva un meno frequente ricorso all’uso della sovralimentazione sino ad allora indispensabile per mantenerlo alla quota assegnata; tuttavia la necessità di adeguare la nostra velocità a quella del target, sensibilmente più ridotta ed effettivamente pari a circa punto76 di mak, allo scopo di volare in formazione stretta e riportare quanto richiesto dal controllo, ci costrinse ad utilizzare i flaps di manovra (T.O. flaps) i quali ci permisero da subito un “handling” assai più efficace a discapito però della resistenza offerta dal velivolo che inevitabilmente ne rallentava l’avanzamento: per farla breve, senza post-bruciatore eravamo troppo lenti e ci sfilavamo dall’ intercettato, con il suo utilizzo, ancorché limitato al minimo setting, eravamo troppo veloci per rimanere in ala e ce lo lasciavamo dietro. Come risposta ad una esclamazione di disappunto che mi scappò in frequenza, il mio leader fu categorico:” tu a sinistra, io a destra”, con ciò significando che avrei dovuto mordere l’ala sinistra “dell’intruso” mentre lui avrebbe masticato quella destra: come? Totò avrebbe detto- ARRANGIATEVI, e così facemmo.
Mediante un forsennato abuso della manetta del gas iniziammo una frenetica danza studiata su una speciale coreografia caratterizzata da brevi e veloci scatti in avanti seguiti da altrettanti repentini arretramenti, così a stretto contatto con lo sconosciuto che nemmeno due ballerini di liscio avrebbero potuto essere tra loro più vicini! Questa tecnica ci consentì innanzitutto di riuscire a distinguere abbastanza chiaramente i contorni della sagoma del velivolo, debolmente illuminati dalle luci di navigazione che lampeggiavano ad intermittenza, e quindi di volargli accanto con sufficiente sicurezza, e poi di acquisire quelle informazioni che da terra attendevano per i rapporti del caso: si trattava di un bireattore executive che batteva bandiera yemenita e del quale, grazie ad un faretto che illuminava le insegne della compagnia posto proprio sulla deriva, fummo in grado di leggere anche la famosa matricola trascritta poco più in basso, quasi certamente facilitati nell’operazione da un divino intervento che concesse al momento il più volte supplicato “sguardo delle aquile”; a questo punto, comunicati a terra nome, cognome e ogni altro parametro di volo dell’intruso, ci fu ordinato di scortarlo sino al confine svizzero, sua probabile destinazione, che ormai distava solo poche miglia dall’attuale posizione.
Sensibilmente più rilassato mentre mi accingevo ad allontanarmi da quella scomoda posizione, notai alcuni curiosi particolari cui non avevo fatto caso solo pochi istanti prima, totalmente preso dal controllo della mia cavalcatura e concentrato sulla raccolta dei dati richiesti: ai trasparenti dei finestrini-oblò, illuminati dalle luci interne, si stagliavano scuri i contorni di altrettanti volti di passeggeri, verosimilmente atteggiati ad una espressione di sorpresa piuttosto che di preoccupazione, mentre dal finestrino del posto di pilotaggio si poteva chiaramente distinguere il comandante del velivolo il quale, alternando l’attenzione tra il cruscotto interno e gli accompagnatori esterni, ruotava convulsamente la testa da destra a sinistra e viceversa. Certo non doveva essere stato piacevole ritrovarsi a fare da companatico tra due caccia armati di tutto punto i quali come draghi che sputano fuoco, anche se non proprio dalle narici come si conviene al più nobile e maestoso dei mostri delle nostre leggende, avevano interrotto, con il bagliore dei loro respiri splendenti nel buio della notte, il riposo dei passeggeri. Più che spiacevolmente sorpreso l’equipaggio, come apprendemmo in seguito, si rivelò del tutto “inc…contrariato” vista la calorosa protesta diplomatica che pervenne alle nostre gerarchie dopo il loro atterraggio in un aeroporto svizzero, ma questa è storia che non ci riguarda.
Mollato lo yemenita proprio sul confine e ricomposta una comoda formazione notturna, Gianni, valutata la quantità di carburante nei nostri serbatoi pari a circa 3000 libbre, residue delle oltre 8000 iniziali, comunicò al controllo un R.T.B. (return to base) immediato, essendo entrambi i velivoli ormai prossimi al bingo, ossia alla riserva minima di combustibile necessaria per un avvicinamento/atterraggio in sicurezza sul campo di partenza. E così, costantemente sorvegliati dal radar di terra, ci tuffammo in una procedura di penetrazione che, a 300 nodi, flaps estesi ed aerofreno fuori, ci avrebbe portato dagli scomodi 35000 piedi attuali ai previsti 2500 e già allineati con la pista, in una posizione cioè ottimale per proseguire autonomamente “a vista” sino all’atterraggio, oppure ricorrere all’assistenza del G.C.A.(Ground Control Approch) di Cameri per un avvicinamento di precisione (indispensabile in caso di avverse condizione meteo e/o visibilità ridotta). La discesa, sebbene non così ardita come la salita, fu rapida e confortevole grazie ad un’atmosfera del tutto tranquilla, al termine della quale il leader optò per la seconda delle due possibilità, contattando, dopo aver chiuso il collegamento radio con il controllo tattico, il radar della nostra base.
La formazione a questo punto si divise in due: il primo velivolo, quello del leader mantenne prua e frequenza, mentre il secondo, il mio, fu istruito a cambiare canale radio e ad effettuare una virata a sinistra di 360 gradi per una separazione di circa 4 minuti, utile per consentire all’operatore alla consolle del radar di precisione di ben distinguere le tracce l’una dall’altra e garantire ad entrambe la migliore assistenza. E così, mentre mi attardavo in una comoda virata a 30 gradi di inclinazione, ad una velocità in progressiva riduzione sino a 260 nodi, limite massimo per l’estrazione del carrello sullo “spillone”, mi concessi qualche attimo di distrazione dalla condotta del velivolo per concentrarmi sulla ricerca di una ragione plausibile atta a giustificare come mai, nonostante il vantaggio inizialmente acquisito grazie agli scarponi da volo mai sfilati , ero stato io declassato a “mangiatore di polvere”, ed in tal modo replicare a tono, o almeno tentare, alla più che certa ironia con la quale il Gianni mi avrebbe accolto una volta a terra; nonostante i pochi minuti a disposizione mi attraversarono la mente un paio di simpatiche giustificazioni basate fondamentalmente su una anomalia spazio-temporale, in seguito alla quale, pur essendo decollato per primo, ero “precessionato” secondo, in virtù soprattutto della tempesta magnetica originata dal buco nero nel quale ci eravamo infilati a nostra insaputa.
La voce famigliare del controllore camerese mi riscosse da questi stravaganti pensieri e dalla ricerca di una meno strampalata motivazione che rimandai a dopo con un mentalmente convinto “ci penserò a terra”: essa pretese la massima attenzione alle successive istruzioni, ordinandomi innanzi tutto di fermare la virata per una prua di 350 gradi, l’orientamento magnetico della pista, e procedere poi con gli ultimi controlli. La distanza dall’aeroporto era ormai ridotta ad una decina di miglia e mi stavo avvicinando velocemente al punto di inizio discesa per il successivo e conclusivo touch down; sotto i 260 nodi estrassi il carrello e a 240 i land-flaps (di particolare importanza su questo velivolo dall’aerodinamica estremizzata per la massima penetrazione, poiché consentono di ridurre sensibilmente la velocità di contatto con il suolo altrimenti molto prossima a quella di un proiettile: 250 nodi). Comunicato il “tutto ok a bordo”, l’operatore, dopo aver imposto di non dare più il ricevuto alle sue comunicazioni, iniziò a sparare in rapida sequenza e senza soluzione di continuità una serie di ordini che istante dopo istante mi avrebbero aiutato a condurre e mantenere lo spillone su un ottimale sentiero di discesa sino al contatto finale con la pista; così a 7 miglia e ad una quota di circa 800 metri sul terreno, appruai il velivolo con un rateo a scendere pari a 700 piedi al minuto mantenendo una velocità di 190 nodi, nodo più nodo meno, costantemente accompagnato da un soliloquio in cuffia che all’incirca suonava così: “Inizio discesa ora…..sul sentiero…. Sul sentiero…. A destra 352… sentiero… 10 piedi sotto il sentiero, diminuire l’angolo…. A sinistra 351….. sentiero….. buona la discesa….. sentiero….. ora dieci piedi sopra, incrementare la discesa….. a sinistra 349…. Di nuovo sul sentiero 2 miglia dal contatto…. Sentiero….. destra 350…. Sentiero….. 1 miglio e mezzo dal contatto…. Sentiero …. Ottima la discesa…. Un miglio…. Prossimo alle minime…. Riportare la pista in vista”.
La pista era sicuramente in vista già da un pezzo ed ora anche illuminata dai fari del velivolo; lasciata la frequenza del radar per quella dalla torre di controllo, venne concessa l’autorizzazione finale all’atterraggio: a pochi metri dal suolo una leggerissima richiamata permise alle ruote del carrello principale di toccare l’asfalto a 160 nodi con la necessaria leggerezza, subito seguite dal contatto del ruotino anteriore; solo con il velivolo stabilmente appoggiato sui tre punti ed evidentemente ansioso di riposare di nuovo sotto la famigliare tettoia vista la fretta che dimostrava per raggiungerla, solo allora, dicevo, chiusi completamente manetta del gas, sino a quel momento mai utilizzata al di sotto del 90% del regime massimo, e contemporaneamente azionai la leva del parafreno: il deciso strappo che seguì confermò la regolare fuoriuscita dello stesso, un marchingegno necessario per diminuire sensibilmente la corsa di decelerazione della fremente cavalcatura senza agire eccessivamente sui freni delle ruote principali. Dopo 45 minuti di volo ero nuovamente a terra e in rullaggio per l’area di parcheggio.
Fermato il velivolo accanto a quello del Gianni, nella piazzola antistante l’hangaretto/ricovero, prima dello spegnimento motore ebbe nuovamente luogo il rituale delle cinque dita e dei relativi controlli allo scopo di verificare ancora una volta lo stato di salute dello “spillone” subito dopo il volo, giusto allo scopo di considerarlo, a rifornimento di carburante avvenuto, nuovamente pronto per un altra missione; ad operazioni ultimate il j-79 venne finalmente zittito ed un rilassante silenzio, come dovrebbe essere d’obbligo a quell’ora del mattino, avvolse nuovamente il piazzale e tutto l’aeroporto; non ebbi nemmeno il tempo di slegarmi e scendere dalla scaletta che già il “mancato mangiatore di polvere” si stava avvicinando con passo deciso alla mia postazione, sfoderando un sorriso che si estendeva da un orecchio all’altro e forse anche oltre, come ebbi modo di verificare di sottecchi mentre armeggiavo più del necessario all’interno del mio abitacolo riflettendo freneticamente sul da farsi.
Giunto che fu sotto la cabina del velivolo e prima ancora che potesse proferire parola, con tutta la faccia tosta di cui potevo disporre in quel momento, guardandolo seriamente dall’alto in basso, lo anticipai con un fin troppo lusinghiero “complimenti comandante, bella missione” subito seguito da un “ meno male che sei riuscito ad infilare in tempo gli scarponi…., ancora un pò e sarei stato costretto a precederti all’uscita”; il di lui sorriso si diluì all’istante lasciando il posto ad una espressione compiaciuta e meravigliata allo stesso tempo: “Ma….. perché?….mi hai aspettato?….” Poi sfoderandolo nuovamente a 32 denti:” non dire ca…..volate!!, ti ho dato la biada!” Pacatamente ma alquanto determinato proferii la mia replica con studiato atteggiamento lievemente risentito mentre scendevo dalla scaletta del velivolo: “ Se ti fa piacere puoi dire così, sappi comunque che non mi permetterei mai di precedere il mio leader in volo se non per serissimi motivi legati alla sicurezza e/o ad una emergenza” a questo punto mi girai verso di lui mostrandogli l’espressione più ingenua e sincera di cui ero capace. Trascorse un istante più del necessario prima della sua reazione e questo stava a significare che il dubbio era instillato, anche se la manata che mi arrivò sulla spalla, accompagnata da un “ma vaaaaa…” voleva convincermi del contrario. Tanto che ancora oggi, quando ci ritroviamo, la manata è sempre la stessa e il suo saluto inizia con le immancabili parole:” con lo yemenita ti ho fatto vedere i sorci verdi, altro che balle….!!!”